C’erano una volta i cuochi e per nostra fortuna esistono ancora (quelli che cucinano realmente), c’erano e ci sono ancora gli chef (quelli che dirigono una piccola o grande brigata di cuochi) professione che poi si sviluppò verso un ruolo nuovo nell’alta ristorazione, quello dello chef manager haute de gamme, e Alain Ducasse è stato il precursore di questa difficilissima specializzazione, perché è vero che procura molte soddisfazioni a livello di fama e di conto corrente, ma per contro impone un’organizzazione che deve girare come un orologio di precisione, ma duttile.
Guidare 1400 impiegati e mantenere un livello di qualità – ad ogni livello richiesto – significa essere un vero manager degno di una grande industria, ma di industria non si tratta, perché ogni situazione è una creazione a se stante, come l’ultima nata a Monaco, a l’Omer, che sposta nuovamente il baricentro di una proposta che si può declinare sia ad un livello pret à porter ma che può facilmente salire – attraversando la hall del Grand Hotel de Paris- a la haute couture del Louis XV, nel rinnovato Grand Hotel de Paris. E’ tutto in movimento a Monaco, gru, cantieri e tonnellate di cemento ovunque, a rifare grattacieli già esistenti o a rubare spazio al mare e creare valore aggiunto, ma la cucina di Ducasse resta pura e mediterranea, almeno qui. Tre elementi e un piatto, senza tante forzature avanguardiste.
Di li si parte, dalla Costa Azzurra, ma è giusto ricordare brevemente un percorso che rappresenta un sogno a occhi aperti, pensando a quel bimbo che proviene da una famiglia di agricoltori che possedevano una fattoria nelle Landes, nel sud ovest francese. Anatre, un confit de canard, del foie gras, tutte cose normali da quelle parti, anche se a noi può apparire strano, ma ogni regione ha le sue profonde tradizioni da rispettare e da mantenere integre, così come solo i francesi sanno fare.
Dal giardino le erbe, dall’orto le verdure di tutte le stagioni, dalle acque i pesci di acqua dolce locali come le anguille piuttosto che i lucci. Come dichiarò ironicamente più di una volta “l’unica cosa che compravamo era il burro”. Evidentemente in fattoria mancavano le mucche, se no si sarebbe trattato di economia autonoma. Lui che ama tanto l’olio d’oliva della Riviera Ligure …
Millesimato 1956 sotto il segno della Vergine (che contraddistingue le persone precise), comincia presto a “bruciare padelle”, perché all’epoca l’apprendistato iniziava già con 15/16 anni. Qualche tempo in un alberghetto di provincia e poi il primo grande salto del predestinato, che a 19 anni entra nelle cucine di Michel Guerard, subito a contatto con una situazione quotata tre stelle Michelin.
Lo garantisco per esperienza personale, vivere a Eugenie les Bains, dove gli abitanti si contano velocemente a mano e dove gli intrattenimenti e le distrazioni praticamente non esistono non è affatto divertente viverci per un ragazzo. E’ come fare il militare in Accademia, con un obiettivo chiaro, quello di concentrarsi esclusivamente sul progetto, su “il divenire” un grande cuoco, intanto quello, poi si vedrà.
Un breve passaggio formativo dal grande pasticcere Gaston Lenotre e poi via verso la regione che lo adotterà e lo porterà ai massimi livelli, la Provenza e la Costa Azzurra. La sua sensibilità verso la cucina provenzale lo identificherà per sempre. Non andò da uno qualunque, ma da Roger Vergè, tra i padri della Nouvelle Cuisine francese, al Moulin de Mougins, prima di passare alla bellissima Terrasse di Juan Les Pins con Christian Morisset, dove ottiene (nel 1984) due stelle Michelin, le prime di una lunghissima serie.
Serie che si sarebbe interrotta se questo uomo non fosse un predestinato, perché poco dopo incappò in un incidente aereo, dove lui fu l’unico sopravvissuto. Un anno di ospedale però, prima della seconda grande svolta, quando la SBM di Monaco gli chiese di rilanciare il vetusto Louis XV del Grand Hotel de Paris. Si narra di un patto chiaro:vogliamo le tre stelle in tre o quattro anni. Il trentatreenne Alain ci mise trentatre mesi a raggiungere l’apice, a conseguire la massima distinzione possibile per uno chef, e il Grand Hotel de Paris fu il primo palazzo al mondo a poter vantare tale onore. Oggi è più normale, ma tra la fine degli ottanta e gli inizi del novanta non lo era affatto.
Dopo tanto sbattimento un po’ di relax? ma certo! Ecco comparire il delizioso relais provenzale che fa di nome Bastide de Moustiers, dalle parti delle mitiche Gorges du Verdon. Era il 1995. Ci andai e mi resi conto che quell’uomo aveva si voglia di fare grandi cose ma in maniera semplice, anche a beneficio della ricca clientela di Montecarlo che per un week end voleva mettersi le infradito e mangiare la migliore insalata della vita. Hotel de charme, 12 camere già corredate di wifi, in una delle quali scrissi la recensione di una cena all’interno del luogo dove l’avevo consumata in piacevole solitudine. Altra stellina in arrivo e quasi di conseguenza la decisione di non essere per forza ai fornelli di un tre stelle Michelin ma di potersi permettere di guardare intorno a se, cercando altri scopi, altre strade. Di li la famosa frase: “non credo che ogni cliente Ferrari possa pretendere che ogni bullone l’abbia avvitato Enzo Ferrari”.
Da qui in poi il cammino va tutto in discesa. Il recupero del Du Parc del suo dirimpettaio monegasco (Robuchon) diventa il suo ristorante parigino premiato di nuovo con le tre stelle, per un attimo perse a Monaco ma presto recuperate (e ci mancherebbe), poi la tendenza manageriale si sposta verso il turismo più “popolare” prendendo il comando della catena Chateaux Hotel, concorrenziale con la più snob Relais et Chateaux, o per meglio dire, alternativa.
Gli Spoon, emanazione pop della sua cucina, concetto però semplificato in formato bistrot e distribuito nei quattro angoli del mondo. Altri profili curiosi che ho potuto conoscere, sempre legati a Monaco o alla Provenza, come il Bar et Boeuf di Montecarlo, dove mangiare, appunto, filetto di manzo o branzino. Oppure la commovente Abbazia de La Celle, dove mangiare la più buona insalata di pomodori immaginabile (almeno sei varietà) e visitare un giardino dove sono coltivate una cinquantina di varietà di vitigni da vino. Una stella anche qui ça va sans dire.
Ma sono le tre stelle l’obiettivo, quelle che cominciano a sommarsi in maniera esponenziale. Il Plaza Athénée parigino le ottiene in brevissimo tempo. Poi arriva Londra. Il Dorchester, e altre decine di aperture sparse in giro per il mondo, adeguandosi un po’ alla clientela locale o di palazzo, a seconda dei casi. Per me resta il ricettario del Louis XV il riferimento, quello più sincero, più vivo, più sentito, più fresco dei borghesi ambienti parigini, con quell’aria secca provenzale che sa di timo e basilico e, il profumo di pesce fresco. D’inverno? La miglior lepre alla royale immaginabile o un piccione grigliato con foie gras, dove riscoprire l’importanza di un fondo di cottura o la profondità di una salsa, il fondamento della cucina francese, classica o moderna che sia.
E l’Italia? Si, ci provò, in Toscana, all’Andana, dove saggiamente si adeguò alla cucina locale senza stravolgerla, accontentando la clientela locale e internazionale in Maremma. Stelletta puntualmente arrivata ma di più non spinse. Niente grandi ristoranti in Italia griffati Ducasse? “No, fino a quando gli italiani non si accorderanno su quale grado di cottura va applicato alla pasta e quale salsa sia la più adeguata”. Così parlò Alain Ducasse
Articolo di Roberto Mostini